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Relazione svolgimento del Laboratorio

La Società Italiana delle Letterate e l’Associazione Il Giardino dei Ciliegi di Firenze, in intesa con l’Università di Firenze, la Regione Toscana (Progetto Portofranco) e in collaborazione con il Comune di Prato hanno organizzato il primo Laboratorio per Mediatrici Interculturali che si è tenuto a Villa Fiorelli (Prato) dal 29 agosto al 5 settembre 2001.
Era la prima scuola di una settimana organizzata dalla Società Italiana delle Letterate, associazione fondata nel 1995 che raccoglie socie elettivamente o professionalmente attive nel mondo della letteratura e della scrittura letteraria, con particolare interesse per la cultura delle donne passata e presente. L’hanno progettata le Letterate toscane, in collaborazione con Il Giardino dei Ciliegi, associazione culturale nota a Firenze per la sua lunga attività femminista.

STRUTTURA
Le partecipanti
60 studentesse “native e non”, alcune delle quali “day students”. C’erano professioniste nel campo dell’intercultura, alcune delle quali studiano o hanno studiato all’estero (Losanna, Londra, Vienna), mentre altre erano di ritorno da stages e da esperienze di solidarietà in vari paesi, e altre ancora lavorano nel campo della ricezione; c’erano varie dottore e dottorande. Etica della cura, razzismo, e sviluppo sostenibile sono termini che ricorrono nei loro curricula. C’erano un paio assistenti sociali, una volontaria nella Croce Rossa, una che lavora nei campi Rom, molte che collaborano ad associazioni di donne immigrate. C’erano laureate in antropologia culturale, sociologia e storia, scienze dell’educazione; molte studiose di letterature straniere con speciale interesse per le ibridazioni culturali, la produzione di immigrati, il bilinguismo, le letterature post-coloniali e caraibiche in particolare, le letterature emergenti, le teorie della comunicazione. Alcune studiano Giappone, India, Cina e Islam, i paesi del Mediterraneo; altre la germanistica e scandinavistica. Due collaborano al Museo delle Donne del Mediterraneo di Napoli. Varie sono interessate al teatro (una in particolare al teatro di strada) e alla danza (attratte forse dai laboratori di Zampiga e Cukara); c’erano giornaliste, insegnanti, traduttrici, una bibliotecaria, una educatrice di strada, e inoltre poete e scrittrici, alcune collegate all’editoria.
Le docenti
33 docenti e 15 ospiti/studiose e artiste. Provenivano da varie parti d’Italia, alcune dall’estero: Cuba, New York, Utrecht, Berlino, città slave, e rappresentavano varie discipline; alcune erano molto giovani, altre meno. Il loro punto di incontro era il progetto di auto-riflessione sulla mediazione interculturale che ha avuto luogo nei laboratori. Alle lezioni frontali del mattino (v. schema) si affiancavano lunghi periodi di discussione e, negli intervalli, attività aggregative liberamente scelte dalle partecipanti (gruppi guidati di lavoro sul corpo).
Il tema dell’autobiografia/raccontar(si) su cui si costruivano le lezioni richiedeva che le partecipanti lavorassero alla propria auto/biografia usando i computer messi a disposizione dal Comune di Prato per una produzione multimediale assistita. Per il dopo cena c’erano in programma due spettacoli teatrali, proiezioni di video, musica.
Il reader
Era stato approntato e spedito in anticipo a tutte le partecipanti un Reader contenente le autopresentazioni delle docenti, e i riassunti degli interventi con aggiunte una bibliografia e una scelta di saggi da leggere in preparazione del laboratorio.
Villa Fiorelli
Villa Fiorelli – bella dentro e fuori – si è rivelata luogo comunicativo ideale. Dentro, ha aperto comodo spazio al lavoro comune (la grande sala dell’incontro di tutte, delle proiezioni, degli spettacoli; le sale dove si va a tavola e si continua a parlare), le stanze per il lavoro personale o dei piccoli gruppi e le “proprie camere”. Fuori, ha offerto le grandi terrazze e il giardino per i lavori dei grandi gruppi e gli scambi strutturali.

CONTENUTI

L’impostazione del Laboratorio

Di solito, per mediatore/mediatrice culturale si intende una persona di origine straniera che lavora per facilitare l’inserimento dei propri connazionali o altri immigrati nel contesto italiano. Dal punto di vista dei soggetti che hanno organizzato il corso, il profilo professionale di “mediatori e mediatrici interculturali” deve partire dalla pratica dei meccanismi dell’intercultura, quindi della comunicazione e dello scambio, e dalla riflessione sul loro funzionamento, perché la sensibilità interculturale non è affatto una cosa spontanea, “naturale”. La storia del mondo anzi ci dice che i contatti tra estranei creano ansia e sono spesso cruenti. Il superamento degli etnocentrismi si impara. L’interazione tra culture diverse ha come scopo non solo uno scambio, ma la trasformazione del modo di pensare. Ne abbiamo bisogno nella nostra nuova società plurale.
Una mediatrice può essere di qualsiasi nazionalità purché abbia il desiderio e le conoscenze per specializzarsi in uno dei tanti settori dove è necessaria. Dovrà conoscere lingue, usi e costumi, tecniche della comunicazione, leggi, dinamiche, e altri fattori che influiscono sulla formazione di saperi e linguaggi…. Gestire differenze etniche e culturali può voler dire semplicemente allargare e adattare le strutture esistenti a un pubblico più diversificato e meno omogeneo, ma richiede comunque una serie di conoscenze che non si acquisiscono in una settimana. Si dovranno seguire più corsi mirati ad una eventuale specializzazione. Ma prestare attenzione alle esperienze, alle culture, ai problemi, all’organizzazione dei rapporti di persone che provengono da ambienti molto diversi tra loro e dal nostro richiede un atteggiamento aperto che può essere formato culturalmente, e che va facilitato, esercitato, e praticato.
Per questi motivi, il Laboratorio si basava sulla comparazione tra linguaggi e culture. Il nostro corso era letteralmente di inter-cultura. Oramai abbiamo un lungo discorso teorico su questo — da Walter Benjamin e la Scuola di Francoforte a George Steiner, Gayatri Spivak e Deborah Cameron — che include antropologhe, sociologhe, linguiste, scrittrici, teoriche femministe, e studiosi post-coloniali e post-strutturalisti. Si dà per scontato che tutta la comunicazione, anche tra persone vicine, è inter-comunicazione e traduzione. I linguaggi che usiamo sono molto diversi, la comunicazione si costruisce, le verità che produciamo sono relative, i significati si producono socialmente. Il nostro laboratorio di intercultura si occupava di indagare criticamente sui meccanismi e modalità che collegano culture e linguaggi, in particolare ma non esclusivamente attraverso le tecniche narrative e letterarie, e attraverso la pragmatica del partire da sé: rendendoci conto delle narrative che usiamo, di come funzionano, di come le costruiamo, di come riflettono le tecnologie dei corpi e dei saperi che ci strutturano.
Non si trattava quindi di un corso che preparasse tecnicamente a occupazioni relative all’immigrazione, ma di una riflessione sulla trasversalità culturale, sociale, etnica, di orientamento sempre più inter- e multidisciplinare che costituisce il contesto material-semiotico in cui viviamo. L’hanno frequentato persone che lavorano nel settore dell’intercultura vera e propria, ma anche persone che desideravano creare una comunità di pratica interculturale, sperimentando su di sé mentre eravamo insieme quella settimana.
Comparazione, cooperazione, comunicazione rispetto delle differenze, sono tutte belle parole, ma sono irte di nodi e fraintendimenti; dunque la nostra comparazione al femminile voleva porre in relazione dialogica la cultura italiana con quella europea, e le culture europee con quelle extraeuropee. Ci interessa partecipare attivamente alla costruzione di nuove e complesse identità in un’ottica transnazionale ecologista, pacifista, antirazzista, attenta alle differenze tra cui quelle di genere. Lavoriamo per rendere possibile una cultura globale in una società equa e sostenibile dove si rispettano e sostengono le diversità.
Il nostro è quindi un progetto “diverso”,  che in vari modi si è dimostrato innovativo e sperimentale,  perché:
O- trasmetteva i presupposti dell’intercultura largamente adottati nei corsi di cultural studies nella cultura anglosassone dove si incontrano e incrociano legittimamente questioni di razza, classe, genere, età, sessualità;
O- sperimentava percorsi multiculturali e interdisciplinari attraverso la contaminazione dei generi e delle risorse [vari tipi di lett(erat)ura, la sperimentazione informatica, l’uso di videocamera come strumento del raccontar(si)];
O- applicava — attraverso l’interazione, lo scambio, e l’analisi dei processi di trasmissione e apprendimento — una forma di pedagogia critica attraverso la quale esercitare alcuni meccanismi della mediazione interculturale. Parte integrante del metodo proposta dal laboratorio era la discussione in piccoli gruppi che poi confluivano in un gruppo allargato. Questi scambi strutturali (un minimo di 3 ore al giorno) si basavano su un misto di assunti e buone norme.
Eccone alcuni:
1 – praticare rapporti positivi, rispettosi delle differenze
2 – trovare un tono empatico per meglio comunicare
3 – riconoscere le somiglianze nelle differenze culturali
4 – dare spazio ad altre/i favorendo l’empowerment anche nel discorso
5 – praticare l’autocritica per meglio apprezzare le altre e gli altri, e per sperimentare la diversità
6 – osservare attentamente e criticare fattivamente i meccanismi della comunicazione e interazione nei gruppi
7 – chiedersi sempre “da dove parlo, dove mi colloco, dove mi situo, per e con chi parlo, chi parla per me o attraverso di me”
8 – diventare coscienti del ruolo del corpo nella comunicazione
9 – rendersi conto della costruzione normativa e storica dei corpi, in continuo mutamento
10 – accettare il fatto che i corpi sono precari, multipli, marcati da un’infinità di differenze
11 – accettare che i corpi si ri/creano
12 – individuare come e perché vengono marcati i corpi
13 – notare come il genere attraversi altre differenze, creando situazioni conflittuali
14 – cercare le prove dell’opinione che il genere sia una lettura socio-culturale di un fattore cosiddetto biologico
15 – indagare se, come dice Stuart Hall, anche la razza è un concetto socio-storico dove la traccia biologica fissa la diversità attraverso il codice inclusione/esclusione.
16 – applicare la categoria dialogica dell’UN-L’ALTRA/O, assumendoci la responsabilità l’una/o degli altri e dell’ambiente
17 – assumersi la responsabilità di pensare il (nostro) divenire e di discuterlo nel gruppo
18 – interrogarsi sul come le passioni e le emozioni intervengono nel discorso, lo modificano, o viceversa ne sono modificate/censurate
19 – sorvegliare le dinamiche di potere/autorità che spesso ledono e snaturano il processo comunicativo
20 – monitorare i propri interventi e quelli altrui tenendo d’occhio l’economia complessiva di ogni situazione comunicativa.

GLI INTERVENTI: RIFLESSIONE GENERALE

Raccontar(si): la parola autobiografica come mediazione
Le parole che seguono stanno a rappresentare
i quotidiani dialoghi di gruppo tra tutte le partecipanti,
ancora in fase di rielaborazione e quindi non inseriti in questo documento.
L’idea di fondo che ha ispirato il laboratorio per mediatrici interculturali a Villa Fiorelli, era “Raccontare/raccontarsi”, ossia la parola autobiografica considerata sia nella sua dimensione letteraria, in quanto pratica della scrittur/azione, che in quella politica, in quanto strategia del riposizionamento di soggetti dislocati.
Mentre ci si concentrava sulle possibili strategie della mediazione interculturale, si cercava proprio con la parola autobiografica, con l’implicito lavoro di scavo affidato all’espressività dei propri vissuti e delle proprie dis-locazioni (geografiche e identitarie), di dare corpo alle differenze, di trasformare quelle identità complesse di soggetti in transito (colonizzati dall’aut-aut ideo-onto-logico della lingua categorizzante che esclude) in spazi di con-fluenza, frontiere dove le contraddizioni si fanno composizione, luoghi di una pluralità composita dove ogni differenza diventa spazio del tra, diventa utopia, principio-speranza di un nuovo mondo possibile.
La continua interazione (affettuosa, aperta, responsabile) ha creato un contesto in cui letteratura, politica e vita si intrecciavano continuamente in un raccontar/si che era sia un atto di creazione artistica, sia una progettazione finalizzata all’intervento sul campo. Si passava senza posa dall’autobiografia all’intervento politico, alla concreta progettazione di strategie alternative del posizionamento di sé all’interno di un mondo pensato come diverso, fatto di pacifica con-vivenza, di integrazione non omologante di differenze.
[Maria Giovanna Onorati (Bari)]

La presentazione dei corsi

Nell’accogliere le partecipanti, e prima di spiegare le poche regole della “casa” e le molte attività concertate, Liana Borghi, responsabile del Laboratorio, esprime la gioia di vedere realizzato il suo desiderio di radunare tante persone così varie per età e provenienza, per scambiare saperi e notizie. Tutto ciò non sarebbe stato possibile, spiega, senza l’aiuto di molte persone, alcune nelle istituzioni locali, come l’On. Beatrice Magnolfi che ha dato un primo forte incoraggiamento, Ambra Giorgi (assessore all’Ambiente del comune di Prato), Lanfranco Binni (dirigente del progetto regionale Portofranco), Mara Baronti, nella sua doppia presenza di presidente della Commissione Regionale Pari Opportunità e dell’Associazione Il Giardino dei Ciliegi; altre nell’Università di Firenze, come il Magnifico Rettore Augusto Marinelli, Maria Caciagli Fancelli (direttrice del Dipartimento di Filologia Moderna), Gabriele Staderini (direttore del Centro Didattico Televisivo) e Paola Conti (Ufficio Ricerca Scientifica). Ma il lavoro di progettazione e organizzazione è il frutto di una sinergia affettuosamente intensa e costante tra 7 donne: Clotilde Barbarulli, Elena Bougleux, Lori Chiti, Mary Nicotra, Ilaria Sborgi, Stefania Zampiga, oltre alla responsabile del Laboratorio. Tutte queste persone hanno creduto nel progetto. Ora spetta alle presenti realizzarlo.
Il Laboratorio nasce dalla convinzione che i grandi cambiamenti di questi ultimi anni rendono molto difficile, se non impossibile, “fare letteratura” come si faceva un tempo, quando il testo era tutto, oppure pensare in termini di “monocultura”. Vero è che l’”intercultura” è diventato un business, o un lavoro di sportello; e se da un lato questa professionalizzazione apre strade e speranze per una migliore comunicazione sociale, dall’altra, la richiesta di know how scoraggia l’indagine culturale sulla comunicazione.
La Società delle Letterate e l’Associazione Giardino dei Ciliegi sono nate come progetti di donne per le donne. Sarebbe bello poter fare come nella fantascienza di Suzette Elgin, dove le donne linguiste (e non gli uomini) hanno la capacità di comunicare con gli alieni e riescono a creare una lingua nuova, il laadan – che diversamente dal nu shu, la lingua segreta delle donne cinesi, non serve a consolare, ma a cambiare il mondo. Più modestamente, nel Laboratorio basterà provare a conoscerci l’un l’altra: c’è molta varietà tra noi, proveniamo da “estranei” percorsi, parliamo lingue diverse. Sappiamo che c’è divario tra la comunicazione parlata e i linguaggi critici della cultura codificata. Il Laboratorio cercherà di farli interagire, indagando sul loro funzionamento, dalla parola al racconto, al romanzo, al video, scavando nelle ideologie che ci costruiscono. Le letterature sono basate su una comparazione fra culture, tecniche, e realtà multiple; possono anche insegnare a guardare diversamente le cose.
Le molte docenti e ospiti presenti sono portatrici di saperi molto vari. Nello spazio di Villa Fiorelli possiamo fare insieme un esperimento basato su alcuni semplici presupposti: ci serve nominare le cose; riflettere criticamente sulle cose nominate; pensare come questo si rifletta sulle azioni; mettere in gioco quello che sappiamo; rischiare di fare domande forti.
Nel gioco delle parti che si farà tutta la settimana, , forse si potrebbe sperimentare anche il ruolo di “intellettuali di frontiera”, per il quale ci aiutano tre regole del filosofo Habermas: 1) fare critica metateorica, chiedendoci come migliorare il nostro presente e il nostro futuro; 2) criticare le strutture sociali da diversi punti di vista, e il mondo dal punto di vista degli oppressi, domandandoci perché è vincente chi è vincente; 3) assumersi gli strumenti critici della comunicazione, e l’interpretazione dei significati.
E per cominciare, potremmo tener presente, nel comunicare tra noi, che razza, classe, religione, sessualità sono anch’esse costruzioni ideologiche. Non c’è innocenza nella nostra cultura. Le domande dovremo cercarle insieme, tra le pieghe dell’Intercultura, in quel punto non espresso che ci sfugge, in quello che ancora non sappiamo.

La prima giornata

Apre i lavori Liana Borghi ricordando le finalità del corso e le sue premesse già delineate nella relazione introduttiva presentata il pomeriggio precedente. Ripete ora la raccomandazione conclusiva di allora: che le partecipanti, docenti, studenti e ospiti si aprano al rischio e alla responsabilità di un incontro impegnato, come questo, a verificare il potere di trasformazione che nasce da una buona comunicazione.
Prendono la parola le prime relatrici, Leonora Memisha (Ass. API di Pistoia) e Leyda Oquendo (U. Havana), portando ciascuna testimonianza di “intercultura” vissuta con coerenza di vita e impegno sociale. Memisha, in quanto donna albanese migrante che lavora a rimediare il disagio di altre donne creando in situazioni difficili un tessuto di mutuo aiuto e supporto attraverso la sua associazione di Pistoia; Oquendo in quanto antropologa anch’essa migrante tra varie università dove insegna intercultura dal suo punto di vista di donna cubana. Il tema degli interventi erano i confini (sociali, razziali, etnici, geografici, personali, disciplinari…), intesi sia come separazione e limite, sia come transito e trasmissione.

Memisha, professore di matematica in Albania,  sottolinea la discrasia tra aspettative e accoglienza delle donne migranti, il loro di preparazione nei paesi di origine e il lavoro di cura a cui sono quasi esclusivamente relegate, gli scogli burocratici per ottenere equipollenze e riconoscimenti, la loro difficoltà di essere ascoltate; e suggerisce di cominciare a valutare la diversità come valore aggiunto riconoscendo il ruolo di facilitatrici e mediatrici che le donne migranti hanno di fatto acquisito per esperienza e per le molte opportunità di formazione offerte dagli enti locali, ed aprendo loro un nuovo campo di attività. Se il bel intervento di Memisha suscita soprattutto consenso e solidarietà, quello di Oquendo provoca reazioni controverse  proprio per il suo pregio di attraversare ironicamente se pur con grande umanità, il multiverso privato della docente (lei, antropologa, giornalista, madre) in quanto irreversibilmente “suocera”, in eterna competizione con sua nuora nel dar prova di virtù domestiche, ma anche eternamente impegnata contro un maschilismo che non sembra desistere, nonostante la resistenza femminile.   Nemmeno la rivoluzione cubana, sembra, ha risolto il quesito “originario”. “Perché la nostra società è maschilista, se l’educazione è appannaggio delle donne?”,  è la domanda che a sua volta la relatrice  rivolge alle presenti.
Storie di vita, di differenze, di integrazioni difficili, di immigrazioni interne, di corpi in affitto, racconta anche la storica Adriana Dada (U. Firenze) che, con le sue storie di balie, storie di donne emigrate da un contesto familiare fatto di ristrettezze,  ha fornito un suggestivo esempio di autobiografie marcate da sofferenza, perdita, perdono. La sera, un altro suggestivo esempio è venuto dalle ricerche di due giovani studiose, Marta Marsili (U. La Sapienza di Roma) e Martina Cannetta (U. Torino), le quali hanno presentato il video di una regista cino-canadese, Yue-Qing Yang, iniziandoci al mondo perduto del Nu-shu, la parola di donna.  Si tratta della  pittografia segreta intessuta su tela, textus (nel vero senso della parola) di significati inaccessibili, che le donne cinesi si tramandavano e con cui fuggivano da un destino di subalternità, dando al silenzio dell’analfabetismo e dell’isolamento a cui una spietata società patriarcale le condanna(va), l’eversiva forma del tacere un segreto da condividere. Alla fine di questo video, un piccolo filmato sui piedi fasciati in Cina mostrava un altro aspetto del corpo segnato su cui si è discusso anche il giorno successivo, ragionando in gruppo con le due presentatrici sulle implicazioni culturali, il punto di vista occidentale, il posizionamento etnografico, e altri snodi interculturali.
Attraversata da questi discorsi incrociati, la giornata ha però trovato un’ulteriore messa a fuoco con l’intervento di   Paola Zaccaria (U. di Bari, Presidente della Società Italiana delle Letterate), anch’esso collegato al tema della migrazione al femminile che è stato discusso animatamente nei piccoli gruppi come nell’assemblea. Attraverso la lettura della carto-auto-bio-grafia Bordelands/La Frontiera della scrittrice chicana Gloria Anzaldúa, Zaccaria offre una sorta di lessico del posizionarsi sulla frontiera (una collocazione dalle molteplici e complesse implicazioni) che non escludeva l’indicibile. L’elogio del mestizaje offerto da questo testo poetico-politico non nasconde il pericolo, il trauma, la paura del cambiamento, ma incoraggia a negoziare il nuovo, a nominare il composito, il pluristratificato; a non scegliere. L’identità che si costruisce nel testo è relazionale, si forma con e tramite gli incontri del percorso. La frontiera, oggi più che mai luogo di conflitti armati, è percepita non come mero luogo geografico in cui la differenza assurge a opposizione binaria, se non addirittura a principio di classificazione gerarchica tra presunte culture superiori e inferiori, ma piuttosto come varco, soglia, passaggio, luogo di confluenza e di mediazione non-indifferente delle differenze. In quest’ottica la frontiera può diventare condizione esistenziale di chi si scopre, nei propri disagi, ad abitare le incrinature dell’essere, ha sottolineato in seguito Anna D’Elia (Accademia Belle Arti/Scienze della Formazione, Bari). D’Elia  lavora alla costruzione di sinergie tra arti visive e letteratura, incrociando testi, immagini, opere, persone che hanno in qualche modo segnato la sua  vita,  e messo in moto pensieri, emozioni, cambiamenti.

La seconda giornata

La seconda giornata aveva come tema gli infiniti modi di raccontarsi: le tecniche di scrittura auto/biografica dal Settecento a oggi; le storie senza corpo; la resistenza delle donne; la violazione del corpo; l’elaborazione del lutto attraverso la narrazione.
Clotilde Barbarulli (CNR Firenze/Il Giardino dei Ciliegi) “madre simbolica” della scuola di Prato per il suo lungo impegno in un percorso pratico sulla differenza, rivolto principalmente alla scrittura e alla politica delle donne, introduce la liminarietà del genere epistolare in alcune scrittrici dall’Ottocento ad oggi, quali ad esempio la Marchesa Colombi, Sibilla Aleramo, Alba de Céspedes, Natalia Ginzburg, Caterina Bonvicini, per arrivare al fascicolo di DWF che propone una riflessione fra generazioni tramite scambio epistolare, ed alle lettere scritte in modo tradizionale e  tramite posta elettronica ai giornali per raccontare, dopo i fatti di Genova, il fascismo incontrato. Questo genere è caro alle donne in quanto variante di una modalità autobiografica intesa come pratica relazionale, in cui raccontare è raccontarsi, raccontare di sé in relazione ad altri. Esprimendo lo stato d’animo nel momento in cui vengono scritte, le lettere esprimono le pluralità dell’Io che nelle sue mutazioni e nei suoi passaggi si ri-inventa. La lettera, anche se cambia forma, non perde la sua ragione d’esistere perché solo così ogni giorno “ha la sua parola d’ordine, il suo vocabolario, i suoi accenti”, e quindi scrivere, e scrivere lettere, è un abitare la distanza fra il sé, il mondo e gli altri/e, in una serie di passaggi esistenziali. Lo spazio epistolare di scambio, di memoria, di denuncia, di affermazione del sé, di sguardo sul mondo è così un continuo raccontare/raccontarsi, un mettersi in gioco nelle relazioni, cercando un dialogo ed un ascolto fra differenti punti di vista, che coinvolge il polimorfismo delle culture e dei saperi e dei sentimenti.
Per la germanista e scrittrice Uta Treder (U. Perugia) la lettera prende valore non dal suo statuto di verità, quanto piuttosto dal suo farsi ponte tra realtà e immaginazione, dal suo esprimere l’io come una pluralità relazionale in cui il tu è spazio di comprensione e ri-costruzione del sé. Il romanzo epistolare nato in Germania  a metà Settecentotrova il suo punto più alto di commistione fra autenticità e immediatezza del vissuto e finzione letteraria  viene raggiunto dalla lettera  nel romanzo epistolare La Günderode (1839). Qui una donna, Bettina Brentano,  narra l’altra, la poetessa Karoline von Günderode morta suicida nel 1806. Treder mette in luce l’amicizia di Bettina con Karoline — amicizia che ricorda l’affidamento teorizzato da Luisa Muraro —  nella modalità del rappresentare l’altra e se stessa attraverso anche le lettere dell’amica, in parte autentiche, in parte manipolate o inventate: un doppio binario in cui il confine vita vissuta e vita inventata, fra biografia e autobiografia è labile, fluido, a volte inesistente. Bettina narra così l’altra mentre narra se stessa, anche per sviluppare, insieme all’amica, sia i concetti di “tempo vivo” e di “pensiero vivo”, con l’intento di abolire il tempo lineare che corre verso la morte e permettere invece al pensiero di prendere corpo, sia un progetto utopico, una sorta di “religione dello stare sospesa”,  teoria filosofica contro il pensiero maschile, per sovvertire la tradizione filosofica occidentale. Non è certo un caso che Bettina scriva questa sua opera quando gli studenti sono in rivolta, per far capire che è dalla loro parte, nel trasmettere con tale scrittura il sentimento di potenziale ribellione che lei sente. Il doppio ritratto che ne risulta rivela l’intento di rovesciare la tradizione filosofica occidentale facendo scaturire da questa relazione duale  l’arte di vivere e di scrivere al femminile.
Della scrittura epistolare parlano anche alcune studiose fiorentine del gruppo Cassandra (Francesca Fiori, Veronica Pellegrini, Aglaia Viviani) in un discorso trasversale che investe l’indagine sulla soggettività di donne all’intersezione di diverse culture, etnie, religioni. La scrittura autobiografica delle autrici discusse (da Jamaica Kincaid, alle scrittrici romane della Resistenza, a Giacoma Limentani) nasce da momenti in cui il “corpo è in tricea”, dalla “fisicità del dolore che diventa parola scarna”.  Quando l’identità è indagata e messa in discussione o addirittura negata  per poter sopravvivere in tempo di guerra, di persecuzioni razziali, di distacco dalla famiglia e/o dal paese di origine, scrivere di sé è un  processo salvifico che permette di porsi in relazione dialogica con la s/Storia. 
A questo proposito, Silvia Salvatici (U. Firenze) racconta una sua  ricerca condotta in Kosovo nei mesi successivi alla fine della guerra, che ha avuto come obiettivo la creazione di un archivio della memoria dell’esperienza kosovara attraverso la raccolta di testimonianze orali. Qual è il ruolo giocato nell’incontro fra colei che narra e colei a cui la narrazione è rivolta, ovvero fra donne portatrici di diverse culture, esperienze, storie di vita, soggettività? Come ascoltare criticamente? Si chiedeva la relatrice spiegando lo svolgimento delle interviste e i problemi ad esse connesse.  Cosa può significare la relazione tra donne di diverse comunità, e l’essere incluse in un’appartenenza che prescinde dalla comunità nazionale? La riflessione generale si orienta poi sul metodo storico e la nuova storia; su questioni come testimonianza, posizionamento, (s)oggettività; sulla declinazione della memoria soggettiva e memoria patriarcale, e lo scarto dove si incunea la soggettività femminile.

La terza giornata

Era dedicata al corpo come luogo di scienza, luogo di esperienza scientifica diretta; quindi al tempo, alla memoria, alla soggettività. La sessione si è aperta con la proiezione del video realizzato dalle Cassandre, Corpi in transito, presentato da Sara Pampaloni e Roberta Pisanzio.
L’argomento seguente, dell’astrofisica-regista Elena Bougleux, fa una breve storia del tempo, che adombra una riflessione sulla persona come autrice del proprio spazio-tempo. Nella storia della cultura scientifica occidentale, spiega Bougleux, si descrive il rapporto tra le definizioni del concetto astratto di tempo e quello concreto di massa: a differenza di tutte le altre grandezze fisiche il tempo classico non viene mai discusso nella sua natura, al contrario viene utilizzato come metro di riferimento per la verifica scientifica. In ambito relativistico si manifesta per la prima volta la necessità di un nuovo tipo di spaziotempo, un concetto multiplo che contemporaneamente consideri il posizionamento del soggetto nel tempo e dell’oggetto nello spazio. Lo spaziotempo relativistico ha natura elastica, è deformato e plasmato dalla presenza dei corpi; il tempo relativistico rallenta con l’aumentare della massa dei corpi, fino a fermarsi del tutto, creando una modalità reversibile dell’esperienza temporale che permette la coesistenza di qualità diverse della percezione e della memoria. Nella molteplicità delle esperienze temporali percorse parallelamente si attuano le diverse velocità dei modi della narrazione, del dialogo, della descrizione, così come anche le diverse definizioni di soggettività culturali composite, di componenti che scorrono con modalità veloci o lente, soggettivamente urgenti o ferme, comunque molteplici. Capire la plurivelocità e plurimodalità dell’esperienza temporale predispone all’accoglienza della diversità.
La sollecitazione di Bougleux è stata accolta con estremo interesse ed entusiasmo, tanto che tutta la discussione della giornata verterà poi su buchi neri e teoria della relatività…
Nell’intervento successivo, Liana Borghi (U. di Firenze) organizzatrice del laboratorio, descrive alcuni percorsi di costruzione del soggetto diasporico, soggetto dis-locato mediato dai discorsi e dai contesti, corpo in traduzione rispetto al quale è utile studiare il processo di identificazione oltre che l’identità. Un caso interessante può essere come l’immaginario coloniale sia stato necessario a formare il Soggetto occidentale, e come le donne, anziché combattere questo immaginario, di solito lottino per accedere ai suoi spazi di potere. Oppure come lo spazio discorsivo delle donne si costruisca attraverso i corpi, per esempio attraverso la designazione del luogo adibito alla sua cura e/ o disciplina, nel caso della casa e della sua variante, l’harem – tropi che permettono la formazione di diversi soggetti-donna. Il corpo femminile è anche oggetto di scambio politico nel discorso nazionalista e integralista. Questo si evidenzia se paragoniamo due autobiografie di donne, una indiana, l’altra marocchina, dove sono leggibili le rispettive differenze culturali riguardo alla percezione del corpo confinato e dello spazio proibito.
Ilaria Sborgi (U. Firenze) collega cultura letteraria e cultura “visiva” delle immagini in movimento, mettendo in relazione due anatomopatologhe, la Kay Scarpetta protagonista dei gialli di Patricia Cornwell e l’agente Dana Scully che nella serie televisiva “X-files” tenta di ricondurre a validità scientifica ciò che il suo partner Fox Mulder mette in discussione, dubitando che tutto possa essere spiegato razionalmente. Due detective donne e due personaggi popolarissimi che spostano i confini e i codici di genere occupandosi di cadaveri (“il colmo dell’abiezione”, gli esclusi, secondo il saggio di Julia Kristeva), facendo autopsie. Il corpo, in queste narrazioni, viene aperto, esaminato, frugato, pesato, investigato, è oggetto di indagine scientifica. Durante l’esame di un corpo dopo la morte, le detective “osservano con i propri occhi” e, soprattutto quando si trovano esse stesse in pericolo di morte, rivolgono il loro sguardo “autoptico” su di sé. Partecipano così alla propria oggettificazione narrativa, diventano loro stesse i corpi da analizzare, i s/oggetti delle loro autopsie, occupando al contempo il ruolo di analiste e vittime. Ed è qui che avviene lo scarto, la crepa nella rappresentazione ideologica del genere (gender) che vede un conflitto tra il loro essere donne e detective. Lo sguardo autoptico di Scully e Scarpetta riflette la loro duplice posizione narrativa di soggetti e oggetti delle proprie storie, e al contempo ne marca l’eccesso, quel margine tra la rappresentazione e l’irrapresentabile che sposta i significati tradizionali del conflitto di genere nel quale sembrerebbero intrappolate. Altro punto su cui riflettere è l’assenza di una genealogia. Ciò si manifesta a livello narrativo nel fatto che solitamente le detective non hanno né madri né figlie, mentre a livello discorsivo sembra loro mancare una genealogia professionale, come se ognuna dovesse cominciare “da zero”. Cosa ci dice questa assenza a livello metanarrativo? Perché le donne sembrano dover ripetere così spesso il ruolo di pioniere, come se non ci fossero state tante altre donne prima di loro ad aprire la strada? Perché non riusciamo a utilizzare e trasmettere i nostri saperi? E che senso ha/può avere se trasferiamo queste domande alla nostra esperienza di questo laboratorio?
E proprio di genealogia artistica trattava l’incontro con la nostra artista Carla Sanguineti, che si riconosce tre grandi passioni: la pace, le donne, l’arte. Sanguineti lavora con specchi e foto, alla ricerca di percorsi altri e altrove. Il lavoro di installazione portato al Laboratorio (dedicato a “Gandhi e la pace” in vista della giornata per il premio dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano) ha coinvolto nella progettazione e realizzazione tutte le partecipanti.
Il resto della giornata è dedicato in parte all’ascolto del proprio corpo tramite il metodo Feldenkrais, sotto la guida di Dragana Cukavac, venuta da Berlino per l’occasione. Questo metodo sofisticato, ma allo stesso tempo aperto, libera l’apprendimento da stress e obblighi di rendimento, riportandolo alla sua funzione biologica originaria, e cioè: essere mezzo per l’esplorazione e ampliamento delle proprie risorse nell’interazione con l’ambiente, umano e non. E’ quindi particolarmente utile alla pratica comunicativa sperimentata dal Laboratorio.

Stefania Zampiga, nel suo seminario, fa osservare come il concetto di intercultura si sia sempre manifestato, nei giorni a Villa Fiorelli, nell’interazione con quello di raccontar(si), anche facendo luce sugli intimi rapporti tra storia, letteratura, antropologia, arti, politica, sociologia, scienze da un lato, e dall’altro tra categorie di genere, razza, classe. In questo senso, il corpo ha costituito la mediazione, la modalità di partecipazione alle attività e dunque la modalità di apprendimento. La lezione tenuta da Zampiga, intitolata “Manoscrittura”, introduce il linguaggio corporeo, lo fa interagire con parole scritte e dette, agendo perciò su alcuni possibili confini tra la letteratura e il corpo, e sperimentava diverse modalità di interazione e di uso dei tempi e degli spazi, per favorire le relazioni tra le partecipanti, e perciò l’apprendimento. “Ho desiderato,” spiega Zampiga, “ che il corpo non fosse solo oggetto di discussione ma anche soggetto di azione. Il mio è stato un frammento, in un altro linguaggio, uno dei possibili racconti sul rapporto corpo e parola scritta. Mi sono raccontata con questa modalità, forse a me più consona, ma anche sperando di  sollecitare altre sperimentazioni.”

La quarta giornata

Il quarto giorno era dedicato all’esperienza del raccontarsi, in particolare riguardo alle reti internazionali.
Maria Rosa Cutrufelli riprende, da scrittrice, il tema dell’autobiografia trattandone in particolare il concetto postmoderno, metanarrativo, ricco di spunti sulla costruzione del soggetto narrante sia da parte di chi scrive che di chi legge, con un patto dialogico che indica la volontà di negoziare il margine tra io e l’altro. Se le donne – come dice De Lillo in Underground – sono “pescatrici di vite perdute”, esse ripescano il passato che rischia l’oblio, costruiscono genealogie, ricuperano figure che finalmente acquistano dignità storica e fanno del passato un piedistallo per meglio guardare il mondo. ma esse sono anche pescatrici di parti perdute del proprio “io”: da qui nasce l’interesse per scritture di sé, epistolari, biografie, autobiografie e memoires. Le vite perdute possono diventare un pratica di scrittura. “Quali mutamenti h introdotto nel genere letterario il racconto di sé?” era la domanda da cui partiva – sulla rivista da lei curata, Tuttestorie – il ragionamento sull’autobiografia in letteratura: perché l’autobiografia è il luogo in cui si abbandona la segretezza del privato e si esce nella scrittura, in cui lo stile si collega al problema dell’incontro con l’altro. Questo passaggio dal privato al pubblico è acquisizione di consapevolezza politica, che merita considerazione nella sua differenza femminile: se gli uomini tendono a mettere distanza tra l’io e il mondo, o – al contrario – compenetrazione, lo sguardo delle donne prende le misure, capisce dove la compenetrazione diventa follia e dove la distanza è prodotto di potere.
La narrazione autobiografica di Bianca Pomeranzi (femminista storica del MFR ed esperta in Politiche di genere e sviluppo presso il Ministero degli Esteri) copre sia la sua esperienza professionale, sia certi punti di riferimento all’interno della fitta rete che collega le ecologiste femministe del Sud del mondo (come Vandana Shiva) e altri network di donne asiatiche, africane e latino-americane con le nostre Donne in nero e la costellazione che ha partecipato al “Punto G8” delle donne a Genova. Globalizzazione in questo contesto significa recuperare pratiche alternative di sopravvivenza. Pomeranzi cita come esempio i comidores populares del Perù, mense di quartiere organizzate dalle donne, oppure i matrimoni tra donne in Kenia, o le vedove che in Uganda si aggregano in case-famiglia. Con la burocratizzazione delle ONG, è diminuita però l’importanza attribuita alla differenza di genere, le donne sono più subalterne agli uomini, e si è ridotta la loro capacità negoziale all’interno dei movimenti internazionali. Da noi in Italia, la rete femminista si scontra con la “Marcia mondiale delle donne”, legata alla sinistra alternativa: i processi materiali sembrano aver messo in ombra i processi simbolici. E’ auspicabile invece che la rete di cooperazione mondiale delle donne ritrovi la sua comune radice sessuata, e che la connotazione di genere torni a contare nei movimenti e nelle istituzioni transnazionali per la democrazia.
Ruba Salih, antropologa italo-palestinese, parla della propria esperienza in un consultorio frequentato da donne migranti provenienti soprattutto dal Marocco. La questione su cui imposta il discorso (citando Nancy Fraser e Iris Marion Young) è la constatazione che quando si parla di donne migranti il pensiero della differenza non basta a spiegare il carattere negoziabile e multiplo di identità e cultura: il razzismo attraversa anche i consultori. Le mediatrici sono persone che hanno attraversato culture e possiedono linguaggi spesso diversi da quelli degli utenti. La loro mediazione non è sempre utile in parte per questo motivo, e in parte perché non riescono a mettere in discussione il loro modo di interagire. Sono comunque un tramite necessario, data la difficoltà linguistica di leggi e decreti, la non chiarezza della loro applicazione da parte degli enti locali, la difficoltà di accedere ai servizi. I migranti vengono trattati come soggetti bisognosi, non come soggetti di diritto; e la donna migrante viene sempre costruita come un soggetto debole, non come cittadina, non come persona.. La loro integrazione dipende dagli anni di residenza, la capacità linguistica, il permesso di soggiorno, la conoscenza del sistema, e dall’accesso a un network di residenti. L’integrazione troppo spesso significa la dissoluzione delle differenze culturali, e conformarsi in vario modo alle aspettative dei “nativi”. Vengono premiate le caratteristiche più vicine alla cultura italiana: per esempio la sedentarietà tipica del nostro stereotipo famigliare, o certi tipi di comportamento sottomesso. In un contesto di scarsità di risorse, i rapporti tra migranti sono spesso conflittuali. Le donne hanno bisogno profondo di una politica delle differenze, ma la loro differenza non è percepita né rappresentata. I consultori, grande conquista del femminismo, dovrebbero fornire servizi più sensibili alle loro reali necessità.
La seduta del pomeriggio continua il tema del raccontar(si). Laura Fantone racconta le sue quotidiane esperienze di migrazione sulla WWW dalla sua postazione di New York, Monica Baroni racconta il suo “dopo Genova” in una riflessione sul ruolo della rete nella costruzione del nuovo soggetto globale, e la responsabilità etica di un posizionamento femminista. Tra i due discorsi ci sono interessanti convergenze.
Riallacciandosi al tema delle tecniche e modalità auto/biografiche, e alla sperimentazione a cui vengono costantemente sottoposte, Fantone ricorda come la struttura del cyberspazio rappresenti un luogo di “transito” tra culture e linguaggi che costruisce una nuova soggettività. Nel cyberspazio sono contenuti testi di vario genere: lettere, conversazioni, chiacchiere “in tempo” reale, archivi di ogni tipo, suoni e immagini. Queste scritture non seguono principi di linearità, ma implicano una diversa concezione del tempo, (tempi di risposta, tempi di attesa, tempi di lettura) e una diversa soggettività (che si può dire multipla), e quindi un diverso autore o autrice, dovuta alla mancanza dei corpi dei soggetti che comunicano nel cyberspazio. Il senso del tempo e della scrittura dato dal cyberspazio non ha una sequenzialità lineare, riducibile a cause ed effetti. Inoltre, il gioco tra desiderio e identità, passa non solo per la tecnologia della scrittura del sé, ma anche per il nodo cruciale del nostro rapporto con la macchina che ci permette di agire al di fuori del nostro corpo.
Per sperimentare con questi materiali, Fantone e altre amiche hanno progettato un diario telematico con l’intento di confondere le loro vite reali e virtuali, per molti aspetti assolutamente inconciliabili. Creare un ipertesto multi-mediale e pluri-autoriale che evolve nel tempo, è un modo per decostruire le tecnologie del sé implicite nella fruizione individuale e solipsistica del cyberspazio. Il fatto di scrivere testi a più autori decostruisce già la scrittura come precisa volontà di costruire la propria identità, accettando lo sciogliersi dei limiti dell’individuo in un’intelligenza collettiva. L’esperimento (che Fantone proietta su uno schermo) mostra come la memoria e l’autobiografia siano narrazioni in processo, tecniche di produzione e constante ricostruzione dell’identità atte a pacificare esperienze interiori e la ritualizzata ripetizione della vita quotidiana.
Anche Monica Baroni parla dei nuovi soggetti creati dalla rete, come si legge in questi stralci del documento che ci ha letto.
“Chiunque sia stato a Genova, anche se non fisicamente, deve aver provato la stessa voglia insaziabile di sapere e di raccontare, come se attraverso questo costante esercizio si potesse lentamente esorcizzare lo spettro di un’esperienza indicibile, incredibile (in senso letterale) e tentare di ridare un senso ai giorni a venire… facendo emergere i contorni di un nuovo io/soggetto narrante, un soggetto globale che parla dal cuore delle differenze, parla tutte le lingue e a tutti può parlare. Questo soggetto e’ la tipologia “d’umano” nata dalla globalizzazione della comunicazione, dei consumi, delle conoscenze, figlia illegittima del neo liberismo contro il quale sta rivolgendo le sue stesse armi. Un soggetto che si fa soggetto-movimento, specie transgenica e mutante, materia e flusso immateriale, carne e spirito, sangue e silicio…. Il movimento che si è materializzato a Genova è un esempio concreto e realistico di quel mutamento epocale preconizzato, temuto e desiderato, legato alle forme di comunicazione elettronica causa e prodotto della globalizzazione…. La rete si fa metafora e terreno di gioco di uno stato dell’essere che era solo in potenza e oggi ha un modo per esprimersi. La rete mi offre un luogo delocalizzato e acentrico per vivere e pensare la mia identità in modo creativo, senza arrendermi a una normatività socio-psicologica. La rete è il segno di un potenziale umano che si fa carne nel movimento. Il movimento rende manifesto il potenziale della rete. Non esiste più la distinzione tra reale e virtuale. Ciò che io vivo è uno stato di transito tra le reti (elettroniche, neurali, umane) e una forma di umanità incompatibile con le definizioni dell’umano in cui sono-siamo stati educati. Il mio corpo si libera, la mia mente si libera. Libero la tensione desiderante e proietto il mio corpo verso il progetto politico ed epistemologico della creazione di felicità, mi riapproprio del virtuale nella sua sostanza etimologica, come ciò che è in potenza e non ancora in atto, come ciò che è sempre possibile altrimenti. …. Ciò che si è manifestato a Genova, scontrandosi con l’altro potere, per riprendere la metafora usata più indietro, è il nuovo potere dei soggetti aggregati secondo un andamento rizomatico agerarchico, che è la sostanza stessa della rete…. Ciò che sta succedendo rappresenta un’occasione irripetibile per mettere alla prova e mettere a disposizione un sapere femminista fatto di analisi e critica della realtà e di capacità di elaborare visioni e immaginari a partire da un preciso posizionamento, ma con un’aspirazione globale al cambiamento. E proprio nei termini di lavoro assiduo sulle differenze il femminismo ha maturato esperienze, saperi e strategie per evitare i rischi dell’universalismo omologante contro il pensiero unico e il neutro. … Pensarsi come soggetti globali, come soggetti virtuali, è secondo me il compito anche per il femminismo perché pensare la differenza oggi, parlare di intercultura, significa mettere in discussione in modo radicale quei dualismi che la critica postmoderna- femminista e non- ha già messo sulla carta. Pensarsi dunque come soggetti postumani laddove l’umano non è più una metafora accogliente e fondante per definirsi.”

La quinta giornata

La giornata era dedicata all’amore e alla passione. Filosofia e letteratura si sono trovate a confronto nei contributi paralleli di Elena Pulcini (U. Firenze) e Monica Farnetti (U. Firenze e Smith College).
Spiega Pulcini che nel pensiero premoderno, da Platone in poi, la passione (“Pathos”) è disordine/eccesso che produce caos e perdita di sé. Per la filosofia classica è un problema morale, sociale, politico cui porre rimedio per costruire un soggetto razionale, morale, fondatore di ordine socio-politico. Nasce da qui la famigerata opposizione ragione/passione che il Cristianesimo tradurrà in vizio, peccato, deviazione da correggere. L’amor cortese costituisce la grande eccezione rispetto al topos occidentale di condanna delle passioni, e rappresenta un codice eversivo rispetto alla condanna – con l’esaltazione del desiderio come joie d’amour (poi risoffocato nel novecento dalla torsione distruttiva amore/morte); e con il “raccontarsi” di Eloisa che osò esistere come soggetto (v. Zambrano) esprimendo la passione come strumento di identificazione. Nel periodo moderno il sentimento non ha più né la patologia della passione né la freddezza della ragione; diventa una emotività pacata passibile di durata, che non mette in pericolo l’ordine sociale e si concilia con la famiglia nucleare borghese: molti romanzi femminili del Settecento rispondono all’esigenza di felicità nel matrimonio (ma nella Nouvelle Eloïse la rinuncia alla trasgressione in nome di relazioni affettive conduce a una morte nel rimpianto del pathos perduto). Se la passione (come eccesso) è caratteristica della pre-modernità e il sentimento (pulsione inibita nella meta) lo è della modernità, tipico del postmoderno è il desiderio — desiderio come “mancanza di” (collegato alla potenza attuale dell’immaginario) che vive in quanto non può essere appagato o soddisfatto proprio perché è illimitato (oggi si può desiderare tutto; il suo oggetto è intercambiabile). Esiste ancora una scarto della posizione femminile su questo? Fino a che punto le donne partecipano al narcisismo del perverso desiderio contemporaneo, illimitato e indifferenziato?
Farnetti isola il tema dell’amore all’interno di una prospettiva più ampia, relativa a tutte le possibili forme della passione femminile, e propone il discorso d’amore come situazione esemplare del problema della dicibilità delle passioni stesse. Pone dunque all’origine il problema della competenza, concettuale e disciplinante, che le donne hanno/non hanno sulle loro passioni, e sollecita un’indagine sui modi, gli stili e le forme che il discorso d’amore delle donne assume nel corso della storia: come parlano d’amore le donne, attraverso i testi; come si “sentono” le loro parole? La nascita di una scrittrice avviene tra la passione amorosa e la produzione di un testo; chi legge sente il loro parlar d’amore (diverso da quello dei personaggi/donne dei grandi romanzieri). Ci sono due ordini discorsivi, secondo Julia Kristeva: quello maschile simbolico che fa ordine e nomina e quello semiotico femminile dove la ragione convive con le pulsioni e le sofferenze. Senza le quali la scrittura delle donne non sarebbe nata. Il discorso d’amore delle donne inevitabilmente elude, sovverte o trascende tutte le tradizioni costitutive del canone occidentale del discorso d’amore: discorso fra i più antichi e più accanitamente codificati, che dalla poesia cortese fino a Roland Barthes appare fissato in immagini immutabili. La scrittura femminile nasce da una pena reale e unica, più che dalle scritture precedenti, ed è estranea ai grandi paradigmi – dei poeti, dei filosofi, dei critici – che ci hanno insegnato a parlar d’amore con segno prevalentemente negativo (amore e morte); le donne parlano d’amore con parole uscite da loro; eludono, sovvertono, trascendono le tradizioni costitutive del canone occidentale del discorso d’amore battendo la dicotomia anima/corpo, ragione/passione, amor sacro/amor profano, discorso letterario/non letterario, poiché per loro l’esperienza d’amore è unificante.
La passione politica era invece il tema del contributo di Raffaella Lamberti del noto e attivissimo Centro di Documentazione delle Donne di Bologna, che lei ha svolto raccontandone una modalità: l’esigenza di tradurre progettualmente il “pensare diversamente” e l’”agire insieme”. Lamberti “si racconta” raccontando l’emozione di una passione condivisa e la creazione di un luogo in cui le donne possano fare insieme una politica fra differenti: non solo quella della grande biblioteca, non solo quella della rete – un server donna unico in Italia – ma soprattutto quella importante dei corpi veri di donne dai quattro angoli della terra, un lavoro transnazionale reso difficile dall’attuale situazione di una città che stringe l’intercultura femminile tra Stato e Chiesa. Qual è oggi il senso di una politica che voglia continuare ad essere femminista dentro la potenza invasiva dei media (e la particolare anomalia italiana), dando valore al cosa si ha da dire, prima del come e del dove? È possibile rendere visibile il segno femminile dentro il massacro della globalizzazione, e ritrovare la parola facendosi largo nella fatica di districarsi all’interno dei “progetti europei”, con tutti i prospetti tecnici da seguire per i finanziamenti, in cui il calco è così forte da allontanarti dal fare direttamente azione politica? Sapersi muovere tra centro e margine è compito della generazione di una nuova politica.
Giovanna Covi (U. Trento) continua, leggendo Jamaica Kincaid, il discorso su amore e passione, partendo dalla sua relazione con la letteratura dei Caraibi sede (post) coloniale e interculturale per eccellenza, dove Europa e Africa si sono incontrate e ibridate sul massacro degli indigeni. Come la lettura della “passione” di Kincaid sia entrata nella vita di Covi entra a sua volta nel circolo comunicativo, insieme al racconto della vita della scrittrice, avviando la decifrazione del romanzo Autobiografia di mia madre attraverso i segni dell’edizione originale – l’uso speciale delle immagini fotografiche femminili. Il rapporto tra racconto autobiografico e racconto letterario fa emergere una passione d’amore e la reinvenzione di un presente libero che non cancelli la storia passata. Dalla lettura di questo testo, e in genere di autobiografie con cui scrittrici contemporanee come Toni Morrison e la stessa Kincaid reinventano e ri-memorizzano il loro passato di schiavitù e colonialismo, emerge una soggettività femminile “prismatica”, un’identità che è divenire, processo, continuo passaggio, che ci aiuta a non porre l’identità come un dato fisso e fondante, ma come un continuo passaggio attraverso il quale ogni soggetto parlante è anche un altro perché sa parlare nei termini di una poetica della relazione e riconosce la forza agente del sentimento d’amore nel rapporto con l’altro, sforzandosi di dirla e di portare la parola oltre i confini dati.
La giornata si chiude con Hybrid Kinship, una performance sul cyborg scritta e diretta da Elena Bougleux, e interpretata da Lucia Sciannimanico.

La sesta giornata

La sesta giornata era dedicata alle narrative degeneri, cioè quelle che non rientrano nel canone della letteratura “alta”, e che proprio per questo ci sembrano particolarmente adatte ad esprimere condizioni eccentriche, minoritarie, necessariamente dedite alla riscrittura, alle ibridazioni, al “de generis”.
Comincia Donatella Izzo (U. Napoli) spiegando che è immagine fasulla, ricostruita dal canone, che il giallo con le sue regole sia stato tradizionalmente considerato genere maschile (grazie anche alle figure classiche di investigatore forte, superiore e misogino): fin dalle origini questo modo narrativo è stato scelto da donne e da uomini.  Pur se la scrittura femminile è stata sempre soffocata dagli Holmes e dai Dupin, essa è collegata storicamente – nell’800 come nel 900 – alla politica delle donne, poiché nei momenti in cui il femminismo si afferma, il genere popolare diventa funzionale al movimento delle donne e agevola il raccontarsi. Si tratta dunque di confrontare testi in cui la narrazione funziona da trappola, spingendo le autrici a immaginare donne detective fortemente emancipate che riproducono il comportamento maschile, con testi in cui l’azione poliziesca può rappresentare la differenza di genere. In particolare si tratta di confrontare il giallo d’azione – in cui la detective esce dalla sfera domestica e determina gli eventi (una questione di presa di potere) senza però porsi il problema dell’origine dei conflitti – col giallo che crea forte identificazione tra lettrice e investigatrice e mette sotto accusa un sistema, facendo i conti col malessere e non col crimine individuale. Si arriva dunque al nodo della questione “raccontarsi”, quando il poliziesco femminile si fa strumento di autoriconoscimento e di empowerment, ponendosi come crossover text che sfida le frontiere, da Sue Grafton a Sara Paretsky, alla particolarissima Amanda Cross.
            Eleonora Chiti (Centro Donna di  Livorno)si collegasottolineando che proprio l’omaggio a Carolyn Heilbrun/Amanda Cross costituisce l’anello di congiunzione tra l’analisi del più libero racconta/si “giallo” di donne e quella della “trappola del rosa”. Da qui avvia il discorso, illuminando l’amata figura “vera” della decana della Columbia University, cui sta a cuore la questione della revisione del canone quanto lo “scrivere la via di una donna”, e la figura immaginata del suo alter ego Kate Fansler, docente di letteratura e investigatrice che crede nella pratica di relazione fra donne. Il discorso muove poi dalla sollecitudine a domandarsi perché ciò che è vincente è vincente, e dal rapporto tra “rosa” e industria culturale (un business miliardario, una faccenda maschile), tra strutture di potere che costituiscono un certo canone letterario e la strategia che organizza il consenso. Il rosa per sua costituzione è incapace di mettere in scena relazioni affettive fra donne, ignora l’ironia e non può trasgredire le formule, pena la perdita di identità. La trappola rosa nasce dalla vecchia alleanza equivoca tra l’industria che individua come una miniera d’oro la passione femminile per la lettura e il sistema educativo della fanciulla cristiana, complici nel riappropriarsi del sogno d’amore e addomesticarlo secondo una precisa politica patriarcale. Patto maschile che dura anche oggi – in epoca di rosa “hard” e apparentemente emancipato – reggendosi sulla lettura passiva e sul lessico impoverito. Da questo vecchio patto dipese anche l’interdizione dalla letteratura alta di grandi scrittrici come De Cespedes, bollate come rosa per svalorizzarne il successo.
            Rita Svandrlik (U. Firenze) si allaccia a questo filo descrivendo come le scrittrici riscrivono i generi riappropriandosene al femminile. Scrittrici contemporanee di lingua tedesca si confrontano con la tradizione della fiaba in rivisitazioni molto libere che non seguono il tipico schema del ribaltamento quanto piuttosto la parodia. Ne sono esempi significativi i nuovi racconti della fiaba di Ondina o la ricomparsa del classico drago rinarrato in modo straordinariamente affine da scrittrici di diverse culture: nella sua uccisione, necessaria alla conquista della principessa, è ravvisabile un conflitto tra il femminile selvaggio rimosso e il femminile addomesticato, ma anche il simbolo di tutto quello che la cultura occidentale ha dovuto eliminare -–in particolare nel regno animale e vegetale – in nome della propria affermazione tecnologica. Il drago compare in racconti di scrittrici lontane fra loro come Ortese e Marlen Haushofer: quest’ultima inoltre nel suo più famoso testo – La parete – mette in scena quel nucleo della soggettività che si deve reinventare in una situazione narrativa in cui qualunque interazione con altri esseri umani è eliminata e, strato dopo strato, viene tolto tutto ciò che è riconducibile alla costruzione del soggetto da parte dell’ambiente sociale e culturale (lo spazio separato dalla parete è confrontabile col topos del deserto, rivisitato al femminile da Ingeborg Bachmann in Il caso Franza). La decostruzione di un soggetto femminile formatosi in situazione storica è un rimettesi completamente in gioco: operazione necessaria a priori per accedere all’interculturalità.
            Il tema della riscrittura è anche al centro dell’intervento finale dedicato alle frontiere virtuali del cyberspace. Roberta Pisanzio, propone un percorso di lettura a partire dalle possibili revisioni femministe del canone cyberpunk per diramarsi tra scenari del  postumano, indugiando sulle performance dei fumetti manga. Al centro della sua  analisi c’è il corpo, o meglio i corpi ibridi e muta(n)ti, le soggettività multiple, frammentate, multietniche, multigender, multiformi; e in particolare il Cyborg secondo le teorie di Donna Haraway: utopia di un corpo in transito tra frontiere dell’identità, la cui struttura mutevole e proteiforme ci obbliga a ripensare il confine tra possibile e impossibile. Le rappresentazioni mainstream del cyborg sono stereotipate sui generi così come sulle ansie maschili  di una virilità perduta e su quelle femminili per una presunta naturalità distrutta dalla tecnologia (vedi vari Robocop e Terminator).  Nella fiction discussa da Pisanzio, invece, i corpi cyborg transitano in spazi virtuali e in metropoli postmoderne, simili a megalopoli asiatiche come Hong Kong e Tokyo con le loro insegne al neon, i megaschermi, gli accostamenti e le ibridazioni fra antico e ipermoderno.  Qui, il rapporto fra reale e virtuale si  confonde, mente e corpo non sono più separabili, Oriente e Occidente si sovrappongono. In questi scenari proposti dall’ormai defunto cyberpunk, scrittrici come Pat Cadigan, Elizabeth Hand, Misha, Melissa Scott, e Nicoletta Vallorani ri-scrivono il canone cyberpunk occupandosi soprattutto di quei temi che il movimento non era riuscito ad approfondire e problematizzare in maniera adeguata: lo statuto del corpo,  il discorso del genere e della razza,  le identità multiple, ibride e frammentate come protagoniste dell’intreccio. E spesso, se non proprio sempre, propongono figurazioni positive  dei nostri tempi (post)moderni e/o motivo di ispirazione e speranza per affrontare il presente-futuro multi- e inter-  (o uni- e globalizzato?) che potrebbe aspettarci.
È stata questa forse la presentazione più suggestiva e spiazzante, corredata dall’allestimento di tre schermi che in contemporanea al discorso parlato mostravano senza cesure spezzoni di filmati, manufatti e feticci post-umani, performance post-gender, e identità mutanti intrecciando le culture di quella società globalmente contaminata in  cui viviamo magari senza accorgercene.
Ma poiché la vita va avanti con il suo prosaico quotidiano intessuto di immaginario e talvolta di meraviglia, la giornata si chiude con la performance di una favola ribaldina, La Batongheide, scritta e diretta da Elena Rossi e interpretata da Angela Soldani, in apertura della festa dove si libera chi ha finito di scrivere la mini auto/biografia da consegnare l’ultimo giorno.

La settima giornata

È dedicata alla presentazione degli elaborati preparati dalle partecipanti. Quasi tutti sono stati scritti nelle esercitazioni a computer, e sono illustrati. Chi ha rifiutato la mediazione tecnologica presenta “manufatti” creativi. Un piccolo gruppo sceglie la performance di parole chiave. L’assemblea finale è dedicata a critiche, suggerimenti, commenti sull’esperienza vissuta insieme durante la settimana. Le registe non smettono di filmare. Ci sono code di lunghi addii fino al tardo pomeriggio. Il personale di Villa Fiorelli viene rincorso per un ultimo grazie nelle stanze sale e salette dove si cancella con aspirapolvere e cenci la memoria del nostro passaggio. Anche loro sono dell’opinione che siamo state un grande gruppo.

Il Centro Didattico Audiovisivo dell’Università di Firenze ha messo a disposizione le proprie risorse per editare e pubblicare il video Borderwords di Cristina Vuolo e Federica Tuzi basato sulle riprese fatte dalle registe durante il Laboratorio, con
la collaborazione delle partecipanti.
Il video è già realizzato.