07 Borghi, Raccontar(si) a villa Fiorelli

Liana Borghi
Il Laboratorio Raccontarsi (SIL 28 marzo 2007 a Roma)

Il Laboratorio è nato dalla necessità condivisa di capire i meccanismi della mediazione e dal desiderio di praticare insieme forme di Intercultura al femminile. Per le donne che vi hanno lavorato e continuano a lavorarci rappresenta un esperimento autoreferenziale e metanarrativo in corso, progettato per fare emergere la varietà dei linguaggi culturali che circoscrivono campi del sapere e discorsi e riflettere su di essi.

Fin dal primo laboratorio, è affiorata una rete di vivacissime “Fiorelle”: un nuovo soggetto collettivo che ha reso visibile realtà molto diverse e al di là della nostra esperienza individuale. È con loro che il laboratorio si è costruito, modificandosi nei 7 anni della sua realizzazione – da formazione di mediatrici interculturali a laboratorio di mediazione culturale.

Quando abbiamo cominciato, sembrava molto trasgressivo partire dal presupposto che tutta la cultura è Intercultura, tutta la comunicazione è inter-comunicazione, dislettura, traduzione.
Quindi native e migranti avrebbero fatto insieme Intercultura anche quando non si occupavano specificamente di mediazione, migrazione, diritti, neoliberismo, cittadinanza. Ci interessava, per citare Rosi Braidotti – “costruire cartografie del presente degne della nostra complessità”, perché siamo effettivamente soggetti complessi, anche per provenienza e formazione. E la nostra cultura di letterate femministe è interculturalmente eclettica, frontaliera come i nostri interessi politici, nati dal riconoscimento di una “sorellanza” globale che poco per volta si è localizzata e situata, ha preso corpi, forme e linguaggi differenti, ha riconosciuto che il genere è una costruzione socio-politica (per le donne come per gli uomini), e che sulla diversità delle nostre differenze possiamo costruire affinità. Nelle maglie di questa varietà si apre lo spazio per i conflitti, le disparità di prestigio e di conoscenze, ma si apre anche lo spazio per soggetti marginali e deterritorializzati di cui ascoltare le storie, cercandovi ispirazione e forza per altri mondi possibili.
Ci occupiamo quindi di meccanismi e modalità che collegano culture e linguaggi, in particolare ma non esclusivamente analizzando tecniche narrative e letterarie, a partire da come noi stesse le usiamo, di come funzionano, di come le costruiamo, di come riflettono le tecnologie dei corpi e dei saperi che ci strutturano. Lavoriamo per rendere possibile una cultura globale in una società equa e sostenibile dove si rispettano e sostengono le diversità.

Il primo interesse comune è stato quindi lavorare su tematiche e strategie narrative e auto/narrative che raffigurano la complessa interazione dei livelli della soggettività di donne all’incrocio tra culture, spesso in condizioni di grave disagio.
Quindi la soggettività di donne all’incrocio tra culture è il tema che attraversa la maggioranza dei nostri saggi, da punti di vista anche teorici. Per esempio, in Figurazioni della complessità, Elena Pulcini si inserisce nel dibattito con il suo “soggetto contaminato”: un soggetto aperto per la ferita costitutiva prodotta da una sua differenza interna; un soggetto esposto al contagio dell’altro da sé che incrina l’onnipotenza del desiderio e che, facendo riconoscere il proprio bisogno di cura, apre quel circuito di reciprocità capace di investire positivamente anche la sfera pubblica e politica.
Giovanna Covi discute, da una posizione costruzionista a partire dalla propria esperienza nel campo delle letterature afro-americana e afro-caraibica, il rapporto complesso tra identità e soggettività insito nel concetto di “razza” e nell’eredità storica che esso porta con sé. Covi sostiene che è necessaria una complessa pratica interdisciplicare per studiare “l’elaborazione sociale del segno biologico nella gestione dei rapporti di potere”; e per capire come indagare sulle specificità del concetto, come tener conto della differenza razziale e sessuale insieme, come tradurre il discorso antirazzista in pratica materiale. Nella sezione sulle “Relazioni complesse”, le osservazioni di Covi prendono forma nel racconto di Simonetta Spinelli sull’esperienza di ordinario razzismo nella scuola dove insegna. Covi e Spinelli concludono ambedue che senza amore lo sforzo antirazzista non regge: “apparteniamo ambedue alla mista razza umana”, scrive una; “innamoratevi del Sud del mondo”, scrive l’altra, non può esserci uno scambio reale con gli studenti stranieri se “non ci innamoriamo un po’ della loro cultura, del loro mondo, in definitiva proprio del loro essere diversi.”
Quel testo rappresenta un passaggio fondamentale per il Laboratorio, per il lavoro che abbiamo fatto su scienza e letteratura. Ci eravamo rese conto che anche nel quotidiano, a livello di immagini e metafore, usiamo cibernetica e teorie dei quanti, e che tra i paradigmi recentemente importati negli studi sociali, troviamo le teorie del caos, perché questi tropi scientifici non hanno solo una dimensione cognitivo-esistenziale, ma anche una ricaduta socio-politica. Ci siamo quindi domandate come certi concetti scientifici condizionino il modo in cui viene rappresentata l’organizzazione del reale nel quotidiano come nelle arti, sia che si discuta di intercultura e migrazioni, di mediazioni e traduzioni, oppure di teorie, poetica e rappresentazioni della complessità.
Era un argomento che offriva spazio per tutte le discipline presenti nel laboratorio, incluse le figurazioni dell’ipermoderno (Baroni e Frabetti).

Sono esempi di sistemi complessi in campo sociale, la schiavitù, l’apartheid, la subordinazione femminile da cui nascono i movimenti di rivendicazione dei diritti civili e il femminismo; oppure sistemi (monarchie, totalitarismi, democrazie, imperialismi) che si rovesciano, dissolvono, implodono; oppure specie che scompaiono (non solo i dinosauri) o si trasformano (come alcuni pesci della barriera corallina). Scegliere di indagare il modello della complessità ha significato anche scegliere un modello non teleologico, funzionale al pensiero postmoderno, consono agli esempi di democrazia partecipativa che desideriamo prospettare attraverso i nostri studi inter- e transculturali.
Analizzando le ricadute culturali delle teorie del caos ci guidava Elena Bougleux, la nostra amica astrofisica ora diventata antropologa, tracciando per noi in modo accessibile le coordinate scientifiche della complessità. Le sue “istruzioni per l’uso” di sistemi complessi, mostravano l’emergere di una evidenza nuova, di un nodo concettuale idoneo a considerare soggetti collocati all’incrocio di numerose reti. Questo ci ha permesso di ricostruire ponti tematici fra discipline, tessere un linguaggio che suggerisca nuove densità di significati, transizioni di fase, fenomeni di e in trasformazione – dinamiche complesse di nomadismi e transiti che necessitano comportamenti complessi, nel senso di molteplici, attenti a condizioni molto diverse di provenienza, sosta, permanenza, ritorno. E inoltre, le teorie del caos spostano l’attenzione dall’oggetto alla relazione tra oggetti, alla rete, ai processi di formazione e mantenimento – uno dei fondamenti concettuali della postmodernità.

Pensate un attimo perché lavorare per una settimana (senza contare i mesi precedenti) sui sistemi complessi significava mettere in pratica, dare corpo e materia alla comunità di pratica che stavamo sperimentando. Pensate a quello che stavamo cercando di fare: ogni anno il tentativo di portare una cinquantina e più persone molto diverse tra loro, per età, provenienza, esperienza, saperi, affetti – e insieme generalizzare, teorizzare esperienze e pratiche – o individuare e individualizzare figurazioni e sistemi teorici attagliandoli alle nostre esperienze – e in base a mappe condivise cercare ricadute politiche, suggestioni utopiche, forme di possibile convivenza, affinità corporee.

Vivere la complessità, ragionare auto-riflessivamente sulla complessità era di fatto la nostra scommessa. Ho trovato curioso che su una giornale gratuito (Firenze) di ieri, ci fosse una pagina intera dedicata ai frattali: “Serviva un modello matematico per descrivere oggetti del mondo quotidiano ruvidi, imperfetti, che la scienza aveva sempre ignorato… il mondo è pieno di cose di forma frattale, … in cui ogni piccola parte ha forma simile al tutto, come le coste marine e gli scogli, le montagne e gli alberi, con le radici, i rami e le foglie, la spiaggia e i granelli di sabbia, le nuvole, i fiocchi di neve, perfino il cavolfiore e i broccoletti romani. E anche il Dna, il cervello, i polmoni.
Quindi il frattale ha il merito di riconciliare la natura, concreta, e la matematica, astratta. … Il frattale è un’allegra metafora interdisciplinare… Non distingue tra insiemi matematici e oggetti naturali. Può essere impiegato in tutti i casi in cui la sua ambiguità può servire a spiegare meglio alcuni aspetti della vita o problemi di altre scienze, in fisica statistica, in biologia, soprattutto in ecologia…”

—Oppure le fiorelle alle fiorelle, come nel nostro caso. O le scritture migranti in italiano, come hanno fatto Clotilde Barbarulli e Luciana Brandi, che in questi testi scoprono tracce frattaliche che ricostruiscono i sistemi dinamici che le hanno generate; oppure che si tratta di vere e proprie narrative frattaliche che tracciano curve discontinue, ricorsive e autosimili in ogni episodio, riproducendo, in quanto struttura del tutto, un’ossessiva alienazione. Potremmo addirittura parlare di soggetti frattalici, autosimili per la storia che narrano, unica e complessiva insieme, non riducibile a elementi semplici, sebbene ogni elemento restituisca le caratteristiche del tutto, all’interno di narrative catturate da argomenti “attrattori” da cui non riescono ad allontanarsi (esilio, paura, silenzio, nostalgia). In questo senso anche il mio saggio, dove sperimentavo sulla corrispondenza di formato complesso tra scrittura, sessualità e identità, lavorava su geometrie frattaliche. E possiamo, leggere di frattali e arti applicate nel saggio di Lidia Campagnano, e trarre dalla meditazione suscitata dal pizzo a forma di frattale creato dalle mani di una qualche donna del passato, custodito come un’eredità nel museo di Vienna, ispirazione per una politica povera e sostenibile, ma vitale, che “organizza quel che c’è”.

I nostri libri raccolgono saggi, mappe di percorsi seminariali, “cammei” di discussioni sviluppate attraverso filmati, performance, o letture. Attraverso l’eterogeneità dei formati abbiamo voluto evidenziare le strategie comunicative usate per coinvolgere le partecipanti al Laboratorio, nelle lezioni, i seminari, le discussioni di gruppo dove il raccontare è sempre protagonista.
Questo volume raccoglie saggi presentati a due edizioni del Laboratorio Raccontar(si), quello del 2004 dedicato alla Diversità, quello del 2005 dedicato alla Precarietà.
Il primo dei due laboratori rispondeva all’invito del Secondo Manifesto di Porto Franco, di “sviluppare processi attivi di valorizzazione delle differenze, perché anche la diversità è un diritto di cittadinanza”.
La diversità sembra essere inseparabile dal concetto di differenza che ha avuto un’importanza fondamentale nel pensiero postmoderno. All’interno di alcune correnti femministe, la differenza è stata usata per significare non solo, idealisticamente, il porsi come soggetto capace di trasformare il mondo, ma come nuova strategia della soggettività, applicata sia ai rapporti tra donne sia alla politica. Superate le dicotomie, emerge il valore dello spazio-tra, fatto di una molteplicità di differenze che possiamo rileggere come luogo della diversità, della differenziazione. Nel pensiero
postcoloniale, l’inafferrabile différance si manifesta anche in percorsi diasporici, disseminazione di identità, nuovi nazionalismi.

Nella nostra accezione di diversità, invece, teorizziamo soggetti politici complessi, ma non per questo meno titolari di spazi, storia e diritti umani. Nella diversità e nella complessità si radica il progetto di un mondo diverso dove le diversità si incontrano, oppongono, accordano e producono una im/prevedibile poetica della relazione tra multiversi culturali (Edouard Glissant).
Nel mondo anglosassone fioriscono corsi sulla diversità, influenzati da due importanti innovazioni nel campo della pedagogia: l’enfasi accordata a forme di sapere “collegate” o “relazionali”; e l’enfasi sull’apprendimento non solo analitico ma “esperienziale”. I corsi attingono a una decennale pratica femminista che riguarda l’autonarrazione, il concetto di pedagogia come incontro culturale, l’apprendimento attraverso il volontariato, e il coinvolgimento nell’ambito di comunità. Le principali finalità di questi studi portano a riconoscere il ruolo della diversità nella vita civile e politica; a praticare la comunicazione interculturale e la risoluzione di problemi e conflitti; a sviluppare un’etica della responsabilità nella convivenza.

Il concetto di diversità va allargato alla diversità culturale in tutte le sue forme, tenendo indicativamente conto della mantra delle differenze di razza, classe, genere, età, preferenza sessuale, disabilità, religione, ecc. Questo si realizza nel nostro Laboratorio anche rispecchiandoci in storie di minoranze etniche e razziali, intrecciate con prospettive politiche, culturali, socio-economiche: leggere un testo senza conoscerne il contesto, avverte Gayatri Spivak, non suscita politica.
E il tema della politica assumeva maggiore rilevanza ancora nel laboratorio dedicato alla Precarietà. Precaria/mente allude sia alla perdita di fiducia nell’avvenire, sia al tipo di lavoro che il neoliberismo richiede nella sua fabbrica globale. A sua volta, la precarietà del lavoro, annunciata come forma di libertà ma rivelatasi senza opzione, produce uno stato di intermittenza e di frammentazione che aumenta il senso della precarietà stessa della vita. Ci faceva pertanto da guida Vite precarie di Judith Butler, dove la precarietà impera nel clima di oltranzismo patriottico degli Usa mentre si attenta alle libertà civili in nome della sicurezza. Con il progressivo smantellamento dello Stato di diritto, emerge sempre di più che ad alcuni non è riconosciuta neanche la dignità di esseri umani: se nell’attuale mondo siamo tutti particolarmente esposti alla precarietà, per alcuni la vita diventa un vuoto a perdere. Di fronte a questo scenario, anche Butler propone un’etica non violenta, basata sulla percezione della precarietà della vita che inizia dalla vita precaria dell’Altro.
Con queste premesse sulla condizione di incertezza postmoderna, il laboratorio era aperto a prestare particolare attenzione al punto di vista delle giovani, Fiorelle “Acrobate” e gruppo Sconvegno, direttamente implicate nelle nuove forme di lavoro flessibile di cui documentavano gli effetti nella loro vita. Discutendo sui nuovi assetti lavorativi, il collasso delle differenze tra lavoro produttivo e riproduttivo, la commercializzazione dell’affettività nel lavoro di cura, e le migrazioni transnazionali, si chiedevano quali strategie usare, come trovare spazi e supporto, come reinventarsi.

Ma il tema della vulnerabilità, la perdita e il lutto che Butler indaga in Vite precarie aveva sollecitato un’attenzione più diretta verso la questione dell’affettività. Gli affetti sono sempre stati importanti nel nostro laboratorio, come è inevitabile in una “zona di contatto” (Brian Massumi) dove le pratiche interculturali si basano sull’ascolto, il racconto, la testimonianza e il riconoscimento dell’altra.