06 presentazione Figur_Azioni

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siamo tutti autori non innocenti
di una produzione di sapere
che dovrebbe suscitarci il desiderio
appassionato di fare concretamente differenza.
(Donna Haraway)

nothing is ever “like” anything else,
it is only ever
itself
niente è mai “come” un’altra cosa
è solo e sempre
se stesso
(Gertrude Stein)

Raccontar(si) 2006

Avrà come titolo Figur/Azioni: Genere, corpi, intercultura e si svolgerà a Prato (villa Fiorelli) dal 19 al 25 agosto.

Questi cinque anni di sperimentazione del rapporto fra genere e culture ci hanno fatto capire quanto sia importante una formazione culturale e professionale all’incrocio fra i due ambiti, e ci indirizziamo pertanto ad una nuova figura professionale: la consulente di parità e intercultura. Stiamo perciò progettando l’allargamento dell’esperienza che si articoli in vari luoghi della regione toscana e in diversi momenti dell’anno.
Possiamo dire che facciano parte di questo progetto allargato:

1) il ciclo di incontri sulla città organizzato dal Giardino dei Ciliegi e dalla Libera Università di Donne e di Uomini “Ipazia” (novembre-dicembre 2005);
2) “Dialoghi sulla Diversità: Preliminari sociali per la formazione di operatori e operatrici di parità e intercultura nell’ambito del volontariato e dell’associazionismo” – corso itinerante CESVOT organizzato dall’Ass. Ireos onlus e dal Giardino dei Ciliegi (gennaio-novembre 2006).

Ci piace ricordare come il nostro Laboratorio sia stato importato in veste ridotta dagli assessorati di Trento, Mantova e Ferrara. Una versione del programma 2005 sarà riprodotta dalle Pari Opportunità del Comune di Trento nel maggio prossimo.

Il Laboratorio 2006 è dedicato alle Figur/Azioni.
Le figurazioni, definite dalla teorica della scienza Donna Haraway “immagini performative e abitabili… che servono a mettere in scena passati e futuri possibili,” hanno il ruolo di metafore multiversali che permettono di esplorare comparativamente analogie, simboli e convergenze.
Le figur/Azioni vengono scelte e proposte come oggetto di identificazione conoscitiva da condividere con altri, da usare come dispositivo che conduca all’agire politico sia condiviso che individuale. La cultura delle donne ha creato negli anni una serie di figurazioni che illustrano le luci e ombre della loro storia, spesso in contrasto con le metanarrative del nostro tempo. La funzione di queste figure può raggiungere notevoli valenze educative nella lettura del presente, e significare forme di resistenza e di adattamento alle migrazioni causate da povertà, sfruttamento e guerre.
Il logoramento delle figurazioni, di tropi e di certe parole chiave richiede una continua revisione dei loro contesti. L’analisi di figurazioni usate in passato permette un’indagine storica di situazioni, attori e processi; ma a loro volta i soggetti coinvolti in processi di trasformazione devono intervenire nella costruzione dell’immaginario contemporaneo formando nuovi tropi, nuove figure del discorso, nuove possibilità storiche, creando possibili figure emblematiche, simboliche, esemplari. Così hanno fatto negli anni passati Gloria Anzaldúa, Cherrie Moraga, Buchi Emecheta e altre scrittrici di colore rivisitando tematiche mito-politicamente frontaliere, oppure, drasticamente innovative come quel link tra tecnoscienza e biopolitica, il cyborg di Haraway stessa; oppure, in sintesi dei due discorsi, come i “soggetti eccentrici” di Teresa De Lauretis e il soggetto nomade di Rosi Braidotti, e altre figurazioni che riflettono relazioni femministe inter- e multiculturali quali modelli postcoloniali di soggettività e coscienza critica.
Spose per corrispondenza, prostitute illegali, viadas, colf straniere, badanti, mediatrici….. sono figure delle nuove professioni migratorie, immagini che servono a mettere in scena passati e futuri possibili. Il rilevamento delle impronte digitali reso possibile dalle nuove tecnologie serve a sua volta a dare visibilità a una storia politica di corpi costruiti, appropriati, incarcerati dal commercio globale, che rende inequivocabili le differenze che contano tra nazioni e culture.
Il Laboratorio si occuperà di analizzare sia queste icone, sia altre immagini fortemente simboliche disseminate dai media e soggette a complesse incrostazioni culturali che formano vere e proprie narrative non sempre affidabili. Tutti questi temi verranno affrontati trasversalmente – sia da esperte che da protagoniste – durante le sette giornate del Laboratorio, nelle lezioni frontali del mattino e nei gruppi di discussione del pomeriggio. I moduli interattivi si articoleranno su alcune tematiche centrali: letteratura (il mondo/il testo); sesso, genere, sessualità; razzismo e classismo; non/luoghi; politiche del lavoro; filosofia e scienza. Oltre ai laboratori di espressione corporea, ci saranno incontri serali con scrittrici migranti e performer. È prevista una attività di coaching a molti livelli (inclusa l’alfabetizzazione telematica) per facilitare la stesura dei saggi auto/biografici multimediali richiesti alle partecipanti come prodotto finale.

FIGUR/AZIONI
Genere, corpi, Intercultura

Spazio analogale, non solo aggiunta linguistica come per la metafora (che può essere soltanto un elemento poetico). Il tropo funziona invece sia come termine metaforico di paragone che come elemento metonimico, sia come elemento discorsivo.
La figurazione viene scelta e proposta come oggetto di identificazione conoscitiva da condividere con altri, in modo che venga usata come dispositivo che conduca all’agire politico. In questo preciso momento la figurazione condivisa diventa dispositivo individuale.
Il logoramento delle figurazioni, di tropi e di certe parole chiave richiede una continua revisione contestualizzata. L’analisi di figurazioni usate in passato permette un’indagine storica di situazioni, attori e processi.

La figurazione viene definita dalla teorica della scienza Donna Haraway una “immagine performativa e abitabile… che serve a mettere in scena passati e futuri possibili.” Le figurazioni hanno il ruolo di metafore multiversali che permettondo di esplorare comparativamente analogie, simboli e convergenze.

Secondo Haraway, le figurazioni femministe non possono avere né il volto di un uomo né quello di una donna, perché non possono essere umane nel senso generico che la storia ha assegnato a questo termine universale, non possono avere un nome, e non possono essere “native”. L’umanità femminista deve opporsi alla rappresentazione letterale, ma allo stesso tempo intervenire con nuovi tropi, nuove figure del discorso, nuove possibilità storiche, creando possibili figure emblematiche, simboliche, esemplari. Così hanno fatto negli anni Ottanta Gloria Anzaldúa, Cherrie Moraga, Buchi Emecheta e altre scrittrici di colore rivisitando tematiche mito-politicamente frontaliere, oppure, drasticamente innovative come quel link tra tecnoscienza e biopolitica,, il cyborg di Haraway stessa; e subito dopo, in sintesi dei due discorsi,troviamo i “soggetti eccentrici” di Teresa De Lauretis e il soggetto nomade di Rosi Braidotti, e altre figurazioni che riflettono relazioni femministe inter- e multiculturali quali modelli postcoloniali di soggettività e coscienza critica. Nel suo libro Testimone_Modesta, il gene, il feto, la razza e l’oncotopo diventano potenti metafore che cavalcano i confini tra domini: il processo decostruttivo, e più ancora, trasformativo, di Haraway ha come principio la contaminazione. Il Feto reso visibile per mezzo delle nuove tecnologie, serve a sua volta a dare visibilità a un discorso alternativo alla tradizione discorsiva occidentale, attraverso una storia politica di corpi costruiti, appropriati, distrutti dal commercio globale, che rende inequivocabili le differenze che contano tra nazioni e culture.

Il rapporto complesso tra posizionamento critico e visione politica viene affidata da Haraway alla figura che registra il processo di un passaggio, la diffrazione, che da fenomeno ottico diventa

una metafora per un altro tipo di coscienza critica alla fine di questo millennio cristiano tanto doloroso, una coscienza impegnata strenuamente a fare differenza invece che ripetere la Sacra Immagine del Medesimo. La diffrazione è obliqua rispetto alla narrativa cristiana e all’ottica platonica, nei loro cicli di racconti tecnoscientifici sacri e profani e nelle loro manifestazioni più ortodosse. La diffrazione è una tecnologia narrativa, grafica, psicologica, spirituale e politica per significare in modo consequenziale.

Nell’accostamento con il ragionamento su le immagini hanno il ruolo di metafore multiversali, permettendo di esplorare comparativamente analogie, simboli e convergenze. È appropriato quindi Haraway e Randolph si dividano l’ultima pagina dove Randolph conclude (incrociando anche Judith Butler),

Cerco di creare corpi che contano. Forse, collocando la realtà delle donne in un mondo fantascientifico, un luogo composto da modelli di interferenza, le donne contemporanee potrebbero emergere come qualcosa di diverso rispetto alla sacra immagine del medesimo, qualcosa di inappropriato, illuso, disadattato e magico – qualcosa che potrebbe fare differenza.

Anch’io concludo tornando alla materialità dei corpi, letta attraverso la metafora, in un intreccio di corpo/incarnazione, inscrizione/incorporazione. Le metafore rappresentano uno spazio di possibilità, di utopica disseminazione temporale, ma contemporaneamente sono anche un costrutto ideologico che dipende materialmente dal tempo e non può esistere al di fuori di una logica narrativa — con un inizio, uno sviluppo intermedio, e una fine:1 in altre parole, uno sviluppo lineare che ripropone strutture narrative tradizionali, logiche di potere egemoniche, autoritarie, centripete. Al tempo sono collegati anche trickster, golem, cyborg, l’oncotopo, il pomopesce e i personaggi tropici del titolo di Haraway. L’autrice ne è perfettamente cosciente, tanto che li colloca in un tempo/spazio virtuale situato all’incrocio di una rivoluzione informatica ed epistemologica con effetti iperreali su tutto il mondo. Il suo gioco meta-narratologico, astutamente contrario a una ideologia della narrazione teleologica, si manifesta nel continuo sottolineare, come abbiamo visto nel caso di mappe e feticci, che di tropi si tratta, di spostamenti discorsivi, di riscritture materiali, di performance narrative la cui performatività può avere letali effetti politici, sociali, ambientali sul mondo — come quando racconta la storia dei feti invisibili — i bambini uccisi in Brasile dalla moda del latte in polvere indotta e propagata dal Nuovo Ordine Mondiale Inc. secondo la politica di globalizzazione, di dominazione informatica, del dumping selvaggio su popolazioni inermi. Nel momento in cui la metafora diventa visibile some arbitro della differenza, nel momento stesso della sua materializzazione, la sua materialità scompare (dice Judith Roof).2
Facendo apparire i corpi, rendendoli visibili come tropi, nelle incrostazioni metaforiche che danno loro significato, Haraway svela il “God trick”, il trucco da Dio della scienza tradizionale, e dei poteri che ad essa si collegano, in forme di strumentalizzazione interattiva e pervasiva. La minuziosa ricostruzione di Haraway delle complesse trame che assegnano i significati agli esseri umani e non umani mostra il processo di inscrizione e incorporamento a cui andiamo soggetti e ci assoggettiamo. Così facendo Haraway ci restituisce la materialità dei corpi riscrivendo diversamente la master narrative della scienza, quella macronarrazione ufficiale e tradizionale, e ci offre figurazioni abitabili per soggetti complessi e interagenti.

1 Paul Ricoeur, “The metaphorical Process as Cognition, Imagination, and Feeling”. On Metaphor. A cura di Sheldon Saks, Chicago University Press, Chicago, 1979.
2 Judith Roof, “Telling Time: Time, Metaphor, Feminism”. Making Worlds. Gender, Metaphor, Materiality. A cura di Susan hardy Aiken et al. Tucson: U. of Arizona P., 1998, p. 307