04 recensione Renata Morresi

Per Leggendaria
Post-scritptum su “Raccontar(si): genere, diversità, culture”, laboratorio di mediazione interculturale a Villa Fiorelli, Prato, 28 agosto-4 settembre 2004.

The bombing of Baghdad
did not obliterate the distance or the time
between my body and the breath
of my beloved.

[Le bombe su Baghdad
non hanno obliterato lo spazio o il tempo
tra il mio corpo e il fiato
del mio amore.]

da “The Bombing of Baghdad”, June Jordan

È in questo spazio-tempo tra il mio e il tuo che negoziamo il tocco. Riconoscerci accade nel tratto interrotto, nel salto discontinuo tra chi sono e chi non sono. Non si avviene se non in questo stupore di muoversi ogni volta un passettino altrove, di chiedersi lo sguardo. Giriamo per la stanza in modo casuale, camminando in direzioni variabili e senza altro scopo che trovarci gli occhi. Intrecci e volute di corpi per metterci in gioco: lo abbiamo chiamato “esercizio”, questo allenarci a manipolare lo spazio tra io noi tu voi. Le distanze si dilatano, comprimono e deformano in modo irregolare: scopro che non ho voglia di tutte allo stesso modo, che non mi fido di tutte allo stesso modo, che coltivo astuzie per districarmi da certe mani, scopro i loro pudori, e che vorrei aprirmi e sentire ognuna in ogni singolo poro, e al tempo stesso tengo molto alla mia opacità. È solo un gioco, o una tecnica, pare, per preparare il corpo all’altra\o da sé. Eppure anche un lavoro ecologico che sintetizza le riflessioni di questi giorni a Villa Fiorelli senza banalizzarne i contenuti nella celebrazione della diversità “in sé” o dell’uguaglianza “a prescindere”.  Un lavoro che m’innamora delle altre e insieme mi dice di nodi insoluti.

Vi sono dubbi, frizioni, vi sono scabrosità, ambiguità sul cosa fare con e sul come parlare di ogni singolo termine che intitola il laboratorio in corso: “raccontare”, “sé”, “genere”, “diversità”, “culture”. Basta la gestione del linguistico, il racconto del sé, ad affermare un’identità? Le parole sono importanti, le parole non devono essere un lusso per pochi: ma le parole sono anche promiscue, usate da tutti, e a gran voce da chi detiene il potere definitorio anche contro determinati “sé”. Come posso prescindere dalle visualizzazioni, dalle macchinazioni e dagli stereotipi imposti? E la verità del “sé” che cerca voce ed espressione, come posso sottrarla alla trappola essenzialista della “autenticità” che immobilizza l’identità in scatole prefissate? O La donna-utero o L’uomo-pene, o La donna nativa o La donna migrante? Come sfuggire sia alla mistica del nomadismo, sia a quella dell’identità assoluta con la terra-patria-appartenenza-cultura d’origine? Come posso sottrarre l’esaltante polivalenza di rappresentazioni ibride al rischio della esasperata frammentazione dell’umano? Come immagino la possibilità di sentirsi al posto dell’altra\o evitando di colonizzarla\o? Come preservare la (mia?) differenza senza farla assimilare alla disuguaglianza, senza farla schiacciare sul dualismo, senza cadere nel pericolo opposto dell’indifferenziazione? Come difendo i diritti umani universali, il pacifismo e la non-violenza sottraendomi al tradizionale simbolico materno? Come tutelo la relatività culturale senza sprofondare nel relativismo? E perché, infine, devo essere io-femminista a farlo? A profondermi in questa donchisciottesca empatia col globo intero?

Perché il femminismo è per tutti, è per l’umano – ricorda Giovanna Covi (e forse – e penso ai danni procurati all’ecosistema – anche per il non-umano).

Di certo non vi sono dubbi sul perché siamo qui: per immaginare e realizzare un mondo improbabile ma necessario che salvi tutti, compresi i suoi assassini. In questa articolazione tra complessità delle definizioni e rispetto delle multiformità, da una parte, e semplicità degli obiettivi dall’altra, immagino il punto focale dei nostri sforzi d’elaborazione. È necessario implementare un vocabolario di parole sostenibili: non vogliamo “termini”, stiamo lavorando su inizi (e indizi) alternativi, nuove coniugazioni che liberino “amore”, “responsabilità”, “bellezza”, “politica”, “poesia”, “giustizia” dal rancido armamentario della retorica egemone. Vogliamo immaginare ipotesi d’azione in cui la spola continua del nostro desiderio di fondere prassi e teoria intesse ciò che chiamiamo vita. Vogliamo usare la strategia di relazionalità sottesa all’esistenza umana, con il suo sistema di traduzioni, aspirazioni, mediazioni e contiguità, per attualizzare progetti di mondo pensati insieme, non nonostante ma grazie alle differenze. Considero l’impegno in questa impresa (faticosa, alta e sofisticata) la caratteristica che rende il femminismo un’avanguardia filosofica e politica al contempo.

Io vivo in Italia: sono cosciente del fatto che in Italia viga l’ordine della velina, che la super-modella tunisina venga presentata ai talk-show in rappresentanza delle “donne islamiche”, che la mistica della maternità rimbalzi ad hoc dall’uno all’altro colle capitolino, che al morboso controllo della sessualità corrispondano da una parte le fiction sulle sante nostrane, dall’altra lo sfruttamento delle clandestine, che la paura degli stranieri esalti il fondamentalismo della famiglia eterosessuale e patriarcale, che sui corpi delle donne dilaghi l’arroganza degli junker della “cultura”. L’oppressione sessista si manifesta trasversalmente in molti modi, passando con nonchalance e senza tema di eventuali contraddizioni dal razzismo benettoniano, all’omofobia da convention leghista, a una vaga esaltazione della “flessibilità”. E io ho bisogno di molti modi, a volte dissonanti, di molti saperi, a volte provvisori, di molte compagne per resistere.

La molteplicità di discipline, dall’antropologia, alla storia alla psicologia, e di esperienze, biografiche, autobiografiche, estetiche e culturali, su cui ci siamo ritrovate a discutere, riflettere e trattare durante la settimana di Villa Fiorelli (e dovrei aggiungere piangere, infuriarci e ammutolire – perché la relazione non è una condizione edenica, ma una negoziazione che può stordire e confondere), rende conto di uno sforzo comprensivo forse utopico, un pensare vasto e sottile che si tuffa nel disordine del mondo. In questo desiderio di immersione nelle discrepanze e nella discontinuità vedo lo stimolo fondamentale per una pratica\poetica basata sui vari e multiformi movimenti del tendere e dell’avvicinarsi. Quell’impastare lo spazio di cui parlavo all’inizio, per riappropriarci (e non è semplice) degli strumenti che ci servono: un agire pubblico e comune, un potere giusto e partecipato, un linguaggio condiviso e creativo.

Renata Morresi